Agosto 6, 2020Nessun commento

Né vendetta né pornografia: la mia intervista per FanPage

Per quanto riguarda Telegram e la condivisione non consensuale di materiale intimo, ho rilasciato un'intervista alla bravissima Annalisa Girardi di Fanpage per parlare dello studio condotto insieme a Lucia Bainotti e in pubblicazione su Social Media + Society. Per comprendere il fenomeno, è infatti necessario studiarne le radici culturali e sociali. Riporto di seguito il testo integrale dell'intervista e lascio il link all'articolo alla fine del post.

Sono anni che sentiamo parlare di Revenge Porn e il dibattito pubblico nel 2019 ha anche portato alla creazione di una legge ad hoc: chi diffonde materiale intimo a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso del soggetto rappresentato rischia ora la reclusione da 1 a 6 anni e una multa che può andare dai 5 mila ai 15 mila euro. Nonostante il quadro normativo da circa un anno tenga conto di quanto questa pratica sia diffusa e pericolosa, la legge non basta. Il problema è culturale ed è profondamente radicato nella società italiana. Il revenge porn oggi è un reato, ma rimane ampiamente diffuso nel nostro Paese. Ci siamo infiltrati in una delle chat di Telegram in cui ogni giorno 53 mila iscritti si scambiano immagini intime di migliaia di ragazze senza il loro consenso, dove commenti denigratori, sessisti e umilianti sono nella norma. Materiale pedo-pornografico, incitazione allo stupro e legittimazione del femminicidio: è questa la quotidianità di alcune chat sul social network.

La polizia postale ha raccontato a Fanpage.it come spesso l'intervento delle forze dell'ordine risulti estremamente complicato, in quanto la piattaforma risponde alla giurisdizione statunitense e non alle leggi italiane. L'autorità non è però impotente e in alcuni casi è riuscita a far chiudere i canali in cui veniva diffuso questo tipo di materiale. Ma spesso per ogni chat chiusa se ne forma un'altra, della stessa natura, dove gli utenti migrano in massa. Ma pensare che il problema sia Telegram non risolve la questione. Che è più legata alla violenza di genere e a una cultura sessista prima che ai social media. Tuttavia, senza dubbio la piattaforma lanciata nel 2013 da Telegram LLC, fondata a Dubai dall'imprenditore russo Pavel Durov insieme al fratello Nikolai, gioca un ruolo nella diffusione del fenomeno. Ma perché proprio Telegram? Lo abbiamo chiesto a Silvia Semenzin, PhD candidate in Sociologia Digitale all'Università degli Studi di Milano e attivista per i diritti digitali che nel 2018 si è fatta promotrice di una campagna contro il revenge porn arrivata fino alla Camera dei deputati.

Perché proprio Telegram?
Insieme alla collega Lucia Bainotti (PhD candidate in Sociologia Digitale all'Università degli Studi di Torino), la sociologa ha portato avanti un'indagine sull'utilizzo di Telegram per la diffusione non consensuale di immagini intime, entrando in 50 chat italiane. Uno studio che ha analizzato la diffusione di questa pratica attraverso la piattaforma, mettendo in primo piano le questione della mascolinità tossica e dell'oggettificazione della donna. "I luoghi virtuali forniscono senz’altro uno spazio alla violenza per diffondersi, amplificarsi e, sotto un certo punto di vista, diventare più visibile. Ma è importante analizzare i comportamenti tossici online mettendoli sempre in relazione con le strutture sociali e culturali preesistenti", racconta Semenzin a Fanpage.it, sottolineando come "le piattaforme non sono neutrali e la loro architettura riflette senz’altro una serie di valori dominanti nella società che spesso rinforzano stereotipi e discriminazioni".

Partendo da questo presupposto, nel loro report le due ricercatrici si sono interessate al modo in cui "l’architettura di una piattaforma come Telegram si interseca alla cultura dominante". Mentre altre piattaforme, come ad esempio Facebook, negli anni hanno iniziato a introdurre politiche più restrittive arrivando a rimuovere specifici contenuti, Telegram può contare su un quadro regolamentare decisamente più allentato. Inoltre, la moderazione dei contenuti fa riferimento alle segnalazioni degli utenti più che a interventi e controlli da parte degli amministratori della piattaforma. "Telegram è una piattaforma di messaggistica criptata che permette la creazione di grandi gruppi di chat (fino a 200.000 utenti) e canali (a numero illimitato), quindi offrendo la possibilità di formare community online molto ampie. Telegram inoltre consente di utilizzare uno pseudo-anonimato: ciò significa che per gli utenti è più difficile essere rintracciati (anche se non impossibile) grazie all’uso di crittografia end-to-end e il fatto che la piattaforma non richieda dati personali oltre al numero di telefono per iscriversi. Per queste ragioni Telegram è diventata una piattaforma preferenziale per lo scambio di materiale illecito", spiega Semenzin.

Non è goliardia, è violenza
Telegram contribuisce a creare un ambiente in cui un uomo che diffonde video o delle immagini intime senza il consenso della donna ritratta non viene colpevolizzato. Tutte le reazioni vengono trasferite sulla donna, che diventa oggetto del piacere dell'uomo, ma soprattutto della sua violenza. E questa potrebbe essere più diffusa di quanto non pensiamo: "Ad un certo punto, poco più di tre anni fa, vengo a conoscenza dell’esistenza di chat maschili tra alcuni conoscenti, le classiche chat ‘da spogliatoio’, dai nomi tipo ‘Donne tutte puttane’. Decido allora di andare più a fondo e cercare di capire che tipo di materiale venisse condiviso in chat con nomi del genere. Scopro allora che non solo la chat serviva alla condivisione di selfie intimi delle ragazze con cui questi ragazzi uscivano, ma venivano anche raccolti sistematicamente foto, video e addirittura audio intimi, fatti di nascosto con videocamere e microfoni occulti. Il tutto al fine di fare gruppo, fare branco. Perché quando riuscivano a rubare foto intime nuove alle ragazze, si schiacciavano il cinque e si sentivano immediatamente più forti", racconta Semenzin.

In quelle chat c'erano anche molte ragazze che la ricercatrice conosceva. Ma per aver denunciato il fenomeno e quella che definisce una "violenza sistematica" afferma di essere stata derisa: in molti hanno replicato semplicemente che "i maschi fanno così, si sa", per cui quelle chat non sono altro che qualcosa di goliardico e fondamentalmente normale. "Questo è esattamente il risultato di quella che in sociologia si denomina cultura dello stupro", continua Semenzin, che ha deciso di iniziare una campagna per denunciare gli abusi su internet e sensibilizzare sul fenomeno.

Il reato di revenge porn nel quadro normativo
La questione ha ricevuto sempre più attenzione mediatica, ma anche politica. Ed è così che, passaggio dopo passaggio, si è arrivati a una legge contro il revenge porn. La penalizzazione di questa pratica è stata inserita nella legge numero 69 del 19 luglio 2019, nota come Codice Rosso. Presentata nel primo governo di Giuseppe Conte dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e dall'allora ministra della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, la legge mira a tutelare le donne vittime di violenza di genere. "Tuttavia, in Italia siamo ancora lontani dal prendere delle misure serie ed effettive contro questo tipo di violenza, perché ancora la banalizziamo e la sminuiamo. Per questo, ancora non siamo riusciti a concettualizzare collettivamente lo stupro digitale come una forma di violenza massiva contro le donne, ma continuiamo a parlarne in termini di pura violazione della privacy", rimarca Semenzin.

Che aggiunge poi come troppo spesso il revenge porn venga considerato ancora un problema privato tra due persone, spesso una donna e l'ex compagno che si vendica per essere stato lasciato. "Quello che questi gruppi su Telegram ci dimostrano invece è come la condivisione non consensuale di materiale intimo faccia parte di una violenza strutturale e sistematica contro le donne, frutto di una cultura ancora fortemente patriarcale", ribadisce però la sociologa. Quando un fenomeno è così radicato nella cultura e nella società, lo strumento giuridico spesso non basta. Non è sufficiente una legge per sradicare una pratica diffusa e in un certo senso legittimata dalla stessa cultura in cui questa si dirama.

Il problema non è Telegram, è una società misogina
E Semenzin lo spiega molto chiaramente: "Il fatto che Telegram fornisca la possibilità di creare gruppi enormi o di nascondersi dietro a uno pseudo-anonimato, permette infatti ad alcuni gruppi di uomini di perpetrare la violenza di genere in maniera più sistematica, addirittura arrivando ad automatizzarla come nel caso dell’uso di bot (che permettono di archiviare materiale nelle diverse categorie, come può essere ad esempio anche il nome di una ragazza; ndr), ma la violenza di genere non nasce con Telegram. Parte tutto dalla socializzazione, dalla cultura. Se capiamo questo, allora capiamo anche che il problema non è soltanto Telegram o il tipo di funzioni che offre: il problema è soprattutto l’uso che se ne fa, che è causato da problemi profondamente radicati nella società". Nel loro studio le sociologhe parlano di "funzioni genderizzate" delle piattaforma: con questo concetto si vuole sottolineare che proprio quelle funzioni che favoriscono lo scambio tra allargate comunità di uomini di materiale intimo senza il consenso della donna ritratta e permettono loro di denigrarle, insultarle e di fatto abusarle digitalmente, non sono viceversa utilizzate in contesti femminile. Non si è mai sentito (ad oggi) parlare di chat di gruppo in cui 50 mila donne umiliano gli uomini diffondendone immagini intime o video realizzati di nascosto durante un rapporto sessuale.

Non ci si deve stancare di ripeterlo. Il problema non è Internet o i social media: è una cultura e una società in cui il sessismo viene normalizzato. "La condivisione non consensuale di materiale intimo è un’altra espressione di maschilità egemonica. Come nello stupro e nelle molestie sessuali, è il potere ad essere centrale e non il sesso. Anche perché il sesso necessita di consenso e qui è proprio la mancanza di consenso ad eccitare, perché genera la sensazione di star dominando, controllando e in certo senso rimettendo le donne al loro posto", aggiunge Semenzin. La sociologa sottolinea come il corpo della donna continui ad essere visto solo in funzione del desiderio maschile: viene quindi oggettificato e categorizzato, diventando un prodotto di consumo per gli uomini.

Una legge non basta, puntiamo sull'educazione
"Non è accettabile che questi atteggiamenti vengano considerati normali. E non è normale che ancora ci vengano venduti come comportamenti goliardici e da maschi", prosegue. Goliardia non può mai essere sinonimo di violenza. E la violenza non può essere combattuta solo attraverso strumenti giuridici: riconoscerla come reato non è abbastanza. "Per cambiare una cultura ci vogliono tempo e pazienza. Ma anche se gli strumenti culturali agiscono più lentamente,  sanno essere estremamente più efficaci della sola ricerca di punizioni o censura di comportamenti", commenta Semenzin. La sociologa quindi sottolinea l'importanza di includere sia l'educazione sessuale ed affettiva che quella digitale all'interno delle scuole. "Se in Italia ancora ci rifiutiamo di parlare di genere e sessualità la conseguenza è che i giovani ricerchino nella pornografia le risposte alla propria curiosità (e la pornografia presenta ancora una serie di stereotipi tossici sul sesso)", aggiunge poi. Sottolineando come anche la terminologia sia importantissima: "Anche chi si occupa di comunicazione dovrebbe cominciare a fare più attenzione ai termini che usa, al modo in cui parla di violenza di genere e alle storie che decide di trattare. Più che focalizzarci sulle storie personali delle vittime facendo sensazionalismo o giustificare i carnefici come spesso succede con le storie di stupro, bisognerebbe parlare di come questi uomini arrivino a sentirsi autorizzati a  compiere determinati atti".


Una legge non basta, puntiamo sull'educazione
"Non è accettabile che questi atteggiamenti vengano considerati normali. E non è normale che ancora ci vengano venduti come comportamenti goliardici e da maschi", prosegue. Goliardia non può mai essere sinonimo di violenza. E la violenza non può essere combattuta solo attraverso strumenti giuridici: riconoscerla come reato non è abbastanza. "Per cambiare una cultura ci vogliono tempo e pazienza. Ma anche se gli strumenti culturali agiscono più lentamente,  sanno essere estremamente più efficaci della sola ricerca di punizioni o censura di comportamenti", commenta Semenzin. La sociologa quindi sottolinea l'importanza di includere sia l'educazione sessuale ed affettiva che quella digitale all'interno delle scuole. "Se in Italia ancora ci rifiutiamo di parlare di genere e sessualità la conseguenza è che i giovani ricerchino nella pornografia le risposte alla propria curiosità (e la pornografia presenta ancora una serie di stereotipi tossici sul sesso)", aggiunge poi. Sottolineando come anche la terminologia sia importantissima: "Anche chi si occupa di comunicazione dovrebbe cominciare a fare più attenzione ai termini che usa, al modo in cui parla di violenza di genere e alle storie che decide di trattare. Più che focalizzarci sulle storie personali delle vittime facendo sensazionalismo o giustificare i carnefici come spesso succede con le storie di stupro, bisognerebbe parlare di come questi uomini arrivino a sentirsi autorizzati a  compiere determinati atti".

Revenge porn non è né vendetta né pornografia
In effetti, anche la stessa espressione revenge porn potrebbe rappresentare un problema, andando a interiorizzare nella sua definizione proprio quella cultura in cui prevale un'idea tossica di mascolinità e una colpevolizzazione della vittima. Sì, perché il revenge porn non ha nulla a che vedere con i concetti di  revenge o di porn. Se si parla di vendetta, si dà per scontato che la vittima abbia fatto qualcosa che meriti una punizione, e nemmeno la pornografia ha molto a che fare con la condivisione non consensuale di immagini intime. Questa è una violenza di genere che va chiamata con il suo nome. "Il nostro lavoro ha cercato di capovolgere il dibattito smettendo di concentrarsi sul ruolo della vittima e sulle sue eventuali ‘colpe’, e cominciando invece a riflettere sul ruolo dei carnefici e sulle cause che spingono migliaia di persone a incontrarsi online per scambiarsi foto di donne senza il loro consenso", conclude Semenzin.

Sottolineando come sia fondamentale in questo senso approfondire le espressioni dell'omosocialità, cioè delle "relazioni tra uomini che rappresentano una importante dimensione nella creazione e validazione della maschilità" in quanto "si ritiene che l’espressione della maschilità e il riconoscimento da parte dei propri pari parta proprio dal disporre del corpo femminile a proprio piacimento". Una pratica che non può e non deve essere legittimizzata, ma percepita come ciò che effettivamente è: violenza di genere contro le donne.


Link all'articolo originale https://www.fanpage.it/politica/il-revenge-porn-non-e-ne-vendetta-ne-pornografia-e-violenza-di-genere-contro-le-donne/

Febbraio 17, 2020Nessun commento

Aikkonnap x ThePeriod

ThePeriod è la newsletter al femminile ideata da @corinnadecesare (giornalista del Corriere della Sera)
Se hai mandato a qualcuno foto di te nuda, dovresti leggere questo
pezzo. Non sentirti in colpa: il sexting, come il sesso, avviene con
consenso reciproco e attraverso una relazione di fiducia. Se lo hai fatto, èperché hai dato fiducia alla persona con cui stavi chattando in quel
momento.
Proprio come Darieth Chisolm, Pittsburgh, Pennsylvania e come lei tantealtre donne in ogni angolo del pianeta. In alcuni casi però le foto passanoda telefono a telefono e poi da gruppo a gruppo fino a diventare di
dominio pubblico. Sappi che è qualcosa di perseguibile per legge, anche
in Italia dove è stato appena riconosciuto come un reato di genere visto
che riguarda le donne nel 90% dei casi.
Perché il revenge porn, la condivisione non consensuale di materiale
intimo, questo è: un reato, diventato perseguibile anche da noi
attraverso un emendamento al Codice Rosso. Sotto accusa sono finite le
piattaforme responsabili di diffusione della violenza, e una regolamentazione obsoleta e inadeguata che non permette alle vittime di agire in tempo per arginare il danno alla propria reputazione.
«Avevo circa cinque minuti prima di tenere un discorso a un gruppo di imprenditori, quando ho guardato il cellulare per vedere l’ora – ha
raccontato in un TeDX Darieth Chisolm, conduttrice televisiva e business
coach –. Una telefonata di mio marito: Darieth, cosa sta succedendo? Mi ha appena chiamato un tizio che mi ha detto di andare su un sito e ora
mi ritrovo a guardare tutte queste foto di te nuda. Le tue parti intime
sono ovunque».
Darieth non riesce a parlare, non riesce a pensare, non riesce a respirare. È travolta dall’umiliazione e dall’imbarazzo, dalla vergogna, proprio
come tutte le vittime di revenge porn. In Italia si è cominciato a discuteredel problema da poco ma da anni ormai su piattaforme come Telegram ci sono decine di chat popolate da uomini di ogni età dove lo scambio di
foto e video di donne senza il loro consenso è diventato un nuovo modo
di creare rete e divertirsi. Come può una legge da sola, fermare il flusso di foto e video che ogni giorno vengono inviati in queste chat da migliaia diuomini, che poi raccolgono e categorizzano questo materiale in un
gigantesco archivio online chiamato ‘La Bibbia’? Come possiamo pensareche una legge faccia sentire questi uomini meno giustificati a fare ciò chefanno? Nella Bibbia c'è di tutto: dai selfie di ragazze minorenni inviati ai rispettivi fidanzatini fino ai video fatti alle ragazze durante il sesso con
videocamere occulte o scatti rubati dai social network.  
È possibile difenderci da tutto questo? Una donna può ancora vivere la propria vita e la propria intimità in maniera serena nell’era di Internet,
in cui l’assoggettamento e la violenza di genere cercano e trovano nuovi
strumenti con cui espandersi?
Non è facile, ma forse cambiare è ancora possibile. 
L’oggettificazione e la sessualizzazione continua del corpo femminile
sono alla base di questo trattamento degradante per cui diventiamo,
testuale, ‘tutte puttane’ (così il nome di una di queste chat).
Troppo spesso, infatti, normalizziamo e lasciamo che queste azioni vengano etichettate come ‘cose che fanno i maschi’, come se nascere con il
pisello legittimi automaticamente questi comportamenti tossici e violenti.
Riconoscere il problema nella cultura patriarcale che giustifica e
incoraggia questi atti è fondamentale anche per evitare di incolpare le
vittime che subiscono questa profonda umiliazione: se una donna vuole
fotografarsi nuda, ha il diritto di farlo.
Va urlato a gran voce che anche le donne, come gli uomini, sono libere di
fare sesso (anche virtuale) con chi gli pare, senza che nessuno si arroghi
il diritto di trattarle come carne da macello. Reclamare la nostra libertà e la nostra autonomia decisionale nel vivere la nostra intimità come
più ci piace è il primo passo per capire che non siamo sole e che se
subiamo violenza non è colpa nostra e non abbiamo nulla di cui
vergognarci. 
Rompere il silenzio, come Darieth Chisolm, può spezzare la catena
dell’odio. Il suo caso, dopo undici mesi di processi e migliaia di dollari
spesi in cause legali, è diventato un caso di portata internazionale tra
Stati Uniti e Giamaica. Ma questo non basta. Bisogna fare pressione nei
confronti delle piattaforme tecnologiche (Google, Facebook, Whatsapp)
per riprendere il controllo dei nostri dati e della nostra privacy. Oggi più
che mai è necessario creare rete per discutere dei problemi che riguardano le violazioni della nostra intimità online e decidere che passi prendere per creare una società più giusta e sicura per tutti.
Infine, esistono dei piccoli accorgimenti che ognuna di noi può praticare
nella propria vita privata quando decide di fare sexting.
Prima di tutto, dobbiamo essere certe di volerlo fare, senza sentirci
forzate. Una volta che abbiamo deciso per il Sì, dobbiamo "anonimizzare" il più possibile le foto evitando di mostrare il viso o elementi identificativi come i tatuaggi. Una foto erotica non è necessariamente una foto in cui sivede tutto il corpo, ma può essere anche un ritratto di parti di esso.
Ci sono infine dei canali più sicuri per fare sexting, come Telegram o
Signal, che permettono di avere più controllo sul materiale inviato,
mentre applicazioni come Snapchat, Instagram o Messenger sono
altamente sconsigliate poiché conservano tutto.
Prendere precauzioni di questo tipo è sicuramente utile per preservare la nostra intimità, tuttavia, bisogna avere la consapevolezza che una
sicurezza online al 100% non esiste.
Per questa ragione, lottare per un cambiamento culturale e continuare a
discutere di parità dei sessi è indubbiamente la via più efficace per
difendersi davvero dal revenge porn.
È un cammino che richiederà tempo, sforzi e pazienza, ma sono sicura
che insieme ce la faremo.
L'autrice: Silvia Semenzin ha 28 anni ed è ricercatrice in Sociologia
digitale all'Università Statale di Milano. è stata promotrice della petizione
#intimitàviolata con Insieme in rete, I sentinelli e Bossy.