(questo articolo è stato pubblicato originariamente nel blog Memorie di Una Vagina di Stella Pulpo, per la rubrica ‘Women Tell’)

Prima di addentrarmi con tutti i piedi nel mondo del revenge porn, avevo sempre avuto l’impressione che la condivisione non consensuale di materiale intimo fosse un fenomeno molto circoscritto, una pratica nata con l’uso dello smartphone che toccava solo una minoranza di persone. Mi ero sempre immaginata che fossero dei maniaci sessuali con evidenti patologie, i responsabili dell’umiliazione derivata dalla pubblicazione online di foto e video di ragazze nude, o riprese durante atti sessuali. E in qualche modo, pensavo che il problema non mi avrebbe mai riguardata perché, alla fine, pensavo di saper scegliere le persone di cui valeva la pena fidarsi. 

Fu dopo la morte di Tiziana Cantone che iniziai a vedere il problema da una prospettiva diversa. Come tutti, anche io avevo visto il meme diventato virale di ‘Stai facendo un video? Bravo!’, e forse anche io, come tutti, non avevo capito che stavo assistendo a qualcosa che non era destinato a diventare pubblico. Fu solo quando seppi che Tiziana si era impiccata, che incominciai a intuire. Tiziana non era stata ammazzata solo dal tradimento di fiducia del suo ex amante. Tiziana era stata ammazzata da tutti coloro che si erano fatti spettatori divertiti della sua violenza, da milioni di persone che improvvisamente conoscevano il suo nome e cognome e si permettevano di dare giudizi sulla sua vita e sulle sue scelte personali, senza averla mai nemmeno incontrata.  

Ma c’era qualcos’altro che mi turbava profondamente. Avevo l’impressione che, nonostante lo shock, nessuno si stesse domandando seriamente quali fossero le cause che portano una persona, una donna, a non reggere più il peso dell’umiliazione sociale e scegliere di togliersi la vita. “Può una persona morire su Internet?”, mi chiedevo. “E perché sono quasi sempre le donne a diventare vittima di questi atti?”. In cuor mio, conoscevo già le risposte e me le tenevo strette. Ma fu solo quando toccò a me scontrarmi con il problema che cambiò davvero tutto. 

“Donne tutte puttane” era il nome della chat in cui un gruppo di ragazzi che conoscevo bene si scambiavano foto, video e registrazioni audio, anche fatti di nascosto, delle ragazze con cui andavano a letto. Non faceva differenza che si trattasse di scopamiche o di fidanzate serie, per loro le donne altro non erano che carne da macello da scambiarsi come figurine per fare a gara a chi ce l’avesse più lungo. E non si trattava di maniaci sessuali, né tanto meno di psicopatici, no. Erano ragazzi normali: figli di buona famiglia, studenti all’università, alcuni pure emigrati all’estero. Il loro problema era solo uno: la società gli aveva insegnato che per affermare la propria virilità e farsi accettare all’interno del branco, le donne dovevano essere per loro principalmente degli oggetti da collezionare e sputtanare per supportarsi a vicenda. Faticavano a trovare dei veri interessi, e quindi alla fine si erano convinti che il loro più grande interesse dovesse essere la figa. Proprio così, letterale, la figa, come se le donne altro non fossero che delle grosse vagine vaganti da sedurre e poi abbandonare per ricevere il biscottino della vittoria dei maschi alfa. Scoprii solo più tardi che l’affermazione della virilità attraverso la violenza e l’aggressività si chiamava mascolinità tossica (dalla quale molti ragazzi oggi si stanno discostando, ma che al momento resta ancora il modello dominante). Al tempo, una volta vista quella chat, mi ero trovata priva degli strumenti che mi facessero comprendere il perché di tanta cattiveria. 

Fu solo quando passò un po’ di tempo che fui in grado di etichettare quei gesti come veri e propri atti di violenza normalizzata nei confronti di ragazze che, nella stragrande maggioranza dei casi, erano totalmente ignare di essere delle vittime.

Quando decisi di gridare la prima volta contro quel tipo di molestie, lo feci utilizzando la prima arma che avevo a disposizione: i social network. Poi da lì, le cose iniziarono a succedere una dopo l’altra, molto velocemente. Da una parte, ricevetti molto appoggio dalle persone che mi conoscevano, ma dall’altra arrivarono le minacce, le offese, gli scherni dei diretti interessati. “Questa è solo goliardia, ma la paladina delle donne non capisce lo scherzo!”, mi sfottevano. “I maschi fanno così, si sa…”, li difendevano alcune donne. Goliardia? Una cosa da maschi? In quel momento mi fu proprio chiaro che mi trovavo di fronte a un grave problema sociale. Ed è stato così che ho cominciato.

Ironia del destino vuole che io sia anche una sociologa, ed è proprio dall’Accademia che il movimento contro il revenge porn inizia. Un anno fa, l’8 marzo 2018, io e alcune colleghe abbiamo organizzato la prima conferenza in Statale a Milano sulla violenza online contro le donne dopo esserci rese conto che non esisteva abbastanza ricerca sul tema. Tra i relatori, abbiamo invitato anche Amnesty International a presentare gli unici dati disponibili sulla situazione italiana – pochi ma sufficienti per sottolineare come le donne siano le principali vittime di odio online. In Italia, una donna su cinque è vittima di violenza online, andando dall’hate speech alle molestie online, fino ad arrivare ai più gravi casi di revenge porn. E proprio nel revenge porn, il 90% delle vittime sono donne. Di queste, il 51% ha pensato al suicidio. 

Impressionata dalla gravità del problema, l’anno scorso ho collaborato con Amnesty International per portare avanti una campagna di sensibilizzazione sulla violenza online contro le donne. Solo pochi mesi più tardi, mi è stato proposto di diventare la faccia di #intimitàviolata, una campagna nazionale lanciata su change.org da tre associazioni per chiedere una legge ad hoc contro il revenge porn. Lanciata a fine novembre, la campagna ha raccolto in tempo record più di 100mila firme portando ad un tavolo di esperti organizzato da Laura Boldrini a cui sono stata chiamata a contribuire in quanto sociologa e attivista digitale.

Proprio in occasione dell’incontro a Montecitorio, ho lavorato per raccogliere nuovi dati sul fenomeno e quello che ne è uscito è stato impressionante. La mia ricerca è stata pubblicata da Wired con il titolo “Uscite le minorenni” (Stella Pulpo ne ha parlato qui), con un’inchiesta che mette in luce la gravità di un fenomeno enormemente diffuso. Tantissimi i canali e gruppi su Telegram a cui ogni giorno partecipano migliaia di ragazzi per scambiarsi foto, video e soprattutto dati personali di ragazze senza il loro consenso.

Oltre a darmi una panoramica allarmante della diffusione del fenomeno, l’indagine mi è servita soprattutto per avvalorare la tesi che le cause da ricercare fossero proprio nell’oggettificazione della donna e nella disapprovazione che la società ancora sente nei confronti della libertà sessuale femminile. 

Se nell’80% dei casi il materiale che gira nei canali Telegram è composto da autoscatti, significa che quelle foto sono state condivise in una relazione di fiducia con un partner durante il sexting (ancora profondamente stigmatizzato, ma per la verità praticato da gran parte delle persone, ndr). Ciò che provoca ansia, umiliazione, vergogna e che può portare anche al suicidio, è proprio lo shaming pubblico che le donne ricevono una volta che diventano pubblicamente vittime. “Potevi fare a meno di mandare foto, sei stata stupida”, è il commento più frequente. Come se una donna che decide liberamente di fare sexting con il proprio partner si meritasse la pubblica gogna. Perché forse il “te la sei cercata” è più facile della messa in discussione dei ruoli delle donne e degli uomini nella nostra società. 

Anche per questo le denunce sono pochissime. E anche per questo, le poche vittime che decidono di denunciare, si trovano a dover affrontare un calvario infinito fatto di anni di processi, migliaia di euro di avvocati e angoscia profonda di ritorsioni sulla propria vita.

La campagna ha generato un interesse anche nel M5S, tale che la senatrice Elvira Evangelista (firmataria della stessa della petizione) ha deciso di proporre un disegno di legge suo, cosicché oggi in Italia abbiamo due proposte di legge che mirano a creare un reato ad hoc per punire chi diffonde materiale intimo senza il consenso della persona ritratta. 

Tuttavia, è chiaro che non è sufficiente una legge per cambiare una cultura in cui la sessualità femminile è ancora un tabù. Il revenge porn va infatti compreso nella sua complessità per combatterlo, perciò quel che serve ora è una reale spinta al cambiamento culturale che aiuti a rompere la catena. Serve educazione civica digitale, serve educazione di genere, serve un dibattito più profondo per capire come eradicare una violenza online che si alimenta nell’offline. Perché il revenge porn altro non è che uno scalino nella piramide della violenza di genere che la rete alimenta e trasforma in shitstorm collettiva. E se il fenomeno fa sempre parte del tremendo problema delle molestie sulle donne, si capisce allora che non è con Internet che il revenge porn nasce e non è con una legge su Internet che morirà. 

Dopo tanto tempo passato a cercare di comprendere, ho capito che la soluzione al revenge porn può essere solo l’abbandono del doppio standard “santa o puttana” che si utilizza per misurare il valore di una donna, non solo dagli uomini, ma anche dalle altre donne. È il giudizio sociale negativo sulla sessualità e sul corpo femminile che può far arrivare a morire di vergogna alcune donne per essere state viste nude o durante il sesso. È stato il controllo sulla sessualità femminile a far morire Tiziana. Quindi se è vero che siamo tutte potenziali vittime, siamo anche tutti potenziali carnefici.

Credo fermamente che l’uguaglianza tra i sessi diventerà più raggiungibile solo quando non sarà più socialmente accettabile reprimere la libertà sessuale della donna, esaltando una cultura dello stupro e una mascolinità che per affermarsi ricorre alla degradazione dell’altro sesso (e di tutti coloro che non si allineano allo stereotipo dominante). 

#Intimitàviolata, così come #metoo, ha cercato di fare un ulteriore passo nella direzione di un mondo più giusto attraverso la sensibilizzazione e l’informazione. La speranza è che questo movimento continui a crescere e riesca a creare maggiore coscienza sociale e coesione tra donne e uomini che hanno voglia di vivere in una società più aperta, solidale e inclusiva.